Alluminio, dietro i prezzi record c’è anche la transizione energetica

La corsa al rialzo dei metalli industriali ha subito un’improvvisa battuta d’arresto dopo i record di prezzo segnati nei giorni scorsi da alluminio e nickel: un’inversione di rotta che appare legata soprattutto al collasso del gigante immobiliare cinese Evergrande, ormai sull’orlo della bancarotta. Una reazione non solo emotiva, ma visto che una crisi nel settore delle costruzioni in un Paese così grande potrebbe mettere un freno alla domanda di materie prime. Almeno sull’alluminio, tuttavia, è possibile chele tensioni non vengano meno. I consumi del metallo sono in crescita, non solo perla ripresa post Covid, ma anche perché l’alluminio è sempre più richiesto perle numerose applicazioni amiche dell’ambiente, dai veicoli elettrici alle pale eoliche. Inoltre l’influenza della Cina in questo periodo è soprattutto legata alla produzione, che nel Paese sta crollando (e anche in questo caso la causa è la volontà di decarbonizzare). È probabilmente quest’ultimo il motivo principale per cui le quotazioni si sono spinte ai massimi da 13 anni, raggiungendo 3mila dollari per tonnellata lunedì al London Metal Exchange. Ieri c’è stata una flessione
di quasi il 2%, che ha riportato il metallo sotto 2.850 dollari, ma si tratta comunque di valori molto elevati, in
rialzo di circa il 50% da gennaio e di quasi due terzi rispetto a un anno fa: livelli che stanno provocando serie
difficoltà alle imprese consumatrici e che complicano le trattative per il rinnovo dei contratti di fornitura, in corso in questo periodo. Il colpo di Stato in Guinea, da cui proviene un quarto dell’offerta globale di bauxite, ha dato un’ulteriore spinta al rally dell’alluminio: operazioni minerarie ed export finora non si sono interrotti, ma l’allumina (derivata dal minerale) ha subito un’impennata di prezzo del 25% solo questo mese, arrivando a scambiare a
38o dollari per tonnellata, che si traduce in un aggravio dei costi di produzione del metallo. Questi tuttavia
stavano già volando e all’origine di tutto c’è il tema dell’energia e della transizione verde. In Europa le fonderie soffrono a causa dei rincari record di elettricità, gas e diritti per la CO2. E in Cina è l’impulso a decarbonizzare (e a risparmiare elettricità, in un sistema sempre più fragile e soggetto a blackout) ad aver spinto il Governo a frenare l’attività di una serie di industrie energivore con alte emissioni di gas serra. I controlli si sono concentrati in modo particolare sui produttori di metalli, a cominciare da alluminio e acciaio. E poiché oltre la metà della produzione globale di entrambi è «made in China» l’impatto si è sentito ben oltre i confini della Repubblica popolare.
L’ultimo shock di origine cinese risale a pochi giorni fa, quando nella provincia dello Yunnan, da cui proviene il io% dell’alluminio cinese, è stato imposto a molte fonderie di ridurre(in alcuni casi drasticamente) la produzione fino afine anno. Un paradosso, visto che da queste parti si fa un grande uso di energia idrolettrica, quindi pulita. Ma quest’estate ibacini si sono impoveriti a causa della siccità e Pechino oggi come oggi è ben decisa a limitare l’impiego di carbone nelle centrali. Anche a costo di usare ilpugno di ferro con le imprese. È l’intensità energetica il parametro impiegato per valutare chi (e quanto) deve frenare la produzione. E nello Yunnan, secondo un documento filtrato alla
Reuters, sono previsti tagli fino al go% perle imprese che si sono dimostrate meno virtuose nei consumi.
@ilsole24ore

Share
Leave comment