Sul mercato del gas è stato il tormentone dell’estate, fonte di apprensione e di continua volatilità. Ora gli scioperi in Australia cominciano davvero, minacciando di fermare oltre il 5%della produzione globale di Gnl, il combustibile in forma liquefatta, da cui l’Europa è sempre più dipendente da quando è costretta a sostituire le forniture russe. Non c’è dunque da stupirsi di fronte all’ennesima impennata dei prezzi, verificatasi nella giornata di ieri: alla notizia della rottura delle trattative sul contratto negli impianti Gorgon e Wheatstone, controllati da Chevron, il gas è arrivato a guadagnare circa il 16%, spingendosi fino a 36,8 euro per Megawattora per le consegne di ottobre al Ttf (salvo poi chiudere a 34,5euro, in progresso del 5,5%). Solo giovedì il prezzo di riferimento del gas europeo era sceso ai minimi da oltre un mese, attorno a 32 euro. E il rimbalzo di ieri è stato probabilmente ispirato soprattutto dalla sorpresa per il precipitare della situazione in Australia: la vertenza poche ore prima sembrava prossima a risolversi, come era già accaduto nell’impianto North West Shelf Lng, di Woodside Energy, dove il pericolo di scioperi è stato scongiurato il 23 agosto grazie a un accordo su salario e condizioni di lavoro. Molti operatori avevano dato per scontato che ci sarebbe stata un’intesa in extremis anche alla Chevron, soprattutto dopo la decisione dei sindacati di rinviare di ventiquattr’ore le azioni di protesta (che in origine dovevano partire giovedì), in modo da concedere più tempo alla trattativa mediata dal Governo. C’è stata invece una brusca rottura, sottolineata dai toni aspri dei comunicati diffusi dalle parti, che al momento non hanno nemmeno fissato la data per un prossimo incontro. Lo sciopero è iniziato, sia pure in modo graduale: si comincia con un’astensione parziale dal lavoro (fino a undici ore) e altre forme di protesta. Ma se non ci sarà una svolta, dal 14 settembre i sindacati minacciano il fermo totale delle operazioni per almeno due settimane. Arrivati a quel punto i rischi diventano concreti, anche per l’Europa, che pure per via delle grandi distanze non importa quasi mai direttamente Gnl australiano. Il Vecchio continente, che si è dotato di nuovi rigassificatori per sopravvivere ai tagli di Gazprom, non può fare ameno del Gnl: le importazioni (Ue e Gran Bretagna) sono già a quota 88 milioni di tonnellate da inizio armo secondo S&P Global Platts, contro 79,34 milioni nell’intero 2021 e un record di 127,87 milioni nel 2022. Nei primi giorni l’impatto degli scioperi australiani non preoccupa: si perderanno uno o due carichi di Gnl al massimo, secondo Tom Marzec Manser di Icis. Ma due settimane di fermo totale degli impianti potrebbero “costare” un milione di tonnellate di combustibile. «Anche se l’Europa entra nell’inverno con stoccaggi molto alti, questa riduzione potenziale dell’offerta restringe un mercato che tuttora si regge su un equilibro molto delicato» Il timore che si verifichino difficoltà con l’arrivo del freddo è evidenziato anche dal fatto che il gas per novembre
al Ttf scambia a un prezzo più alto di una decina di euro (ossia di quasi il 3o%) rispetto a quello per ottobre: una situazione nota come “contango”, che peraltro potrebbe incoraggiare l’accumulo di ulteriori scorte. Non nei depositi a terra, quasi pieni ovunque, ma magari in mare: Gnl a bordo di metaniere all’ancora, pronte a consegnare il carico quando il prezzo sarà più alto. È anche vero che il Gnl nei prossimi mesi rischia di dirigersi altrove. Lo sciopero in Australia potrebbe spingere i clienti di Chevron (soprattutto utilities giapponesi e sudcoreane) a cercare forniture sostitutive e la competizione specie se anche la Cina tornasse in forze sul mercato farebbe salire i prezzi ovunque. Per ora, grazie anche alla domanda che rimane moderata, in Europa come in Asia, non si intravvedono comunque problemi imminenti. Inoltre non è escluso che gli scioperi rientrino a breve: l’avvio delle proteste sembra mirato soprattutto ad «aumentare la pressione su Chevron, piuttosto che a colpire duramente la produzione», osserva Saul Kavonic di Credit Suisse. Una chiusura totale e prolungata del resto «provocherebbe una crisi energetica nel Western Australia, spingendo il governo a intervenire per fermare lo sciopero».
Il Sole 24 Ore