Se Bruxelles ha fretta di vedere le modifiche dell’Italia al Piano nazionale di ripresa e resilienza, non è solo perché sul successo di Roma Ursula von der Leyen si gioca una piccola parte del proprio futuro. Certo, un po’ forse è anche quello: la presidente della Commissione è fra gli artefici del Recovery e della scelta di concedere all’Italia la quota più ampia dei fondi; se il progetto fallisse nel Paese più emblematico, per qualcuno dei governi da sempre meno entusiasti in proposito non sarebbe certo un argomento per la rielezione di von der Leyen nel 2024. Dietro la fretta di Bruxelles c’è però soprattutto una ragione pratica: i garanti delle risorse del Pur sono proprio i governi europei, i quali dovranno necessariamente approvare le proposte del governo di Roma dopo che l’avrà fatto la Commissione stessa; la procedura prenderà mesi e, se si aspetta ancora, c’è il rischio che resti poco tempo per realizzare gli investimenti entro la scadenza del 2026. Intanto però in Italia si stanno facendo sentire tre fattori che portano il ministro per gli Affari europei, Raffaele Fitto, a procrastinare. Il primo è legato agli equilibri nel governo. Chi conosce bene l’impianto del Pnrr stima che i fondi potenzialmente soggetti a un cambio di destinazione pesino, al massimo, fra il 12%
e il 15% dei 191i5 miliardi destinati all’Italia. Dunque fra venti e trenta miliardi al più, il che sarebbe già moltissimo. Ma per individuare gli investimenti da tagliare o da spostare, Fitto si è rivolto a coloro che ne detengono i segreti: le diverse amministrazioni ministeriali che, in teoria, hanno il quadro ciascuna dello stato di attuazione dei propri progetti. Qui è scattato l’istinto di autoconservazione delle burocrazie, perché molti ministeri sono tutt’altro che entusiasti di fare trasparenza. Nessuno ha fretta di rischiare di vedersi privare di fondi, solo perché alcuni cantieri non sono al passo. Ha iniziato a farsi sentire a questo punto il secondo fattore di ritardo: il freddo sceso più che fra i politici fra gli uffici del ministero dell’Economia e di Palazzo Chigì. Fitto e la premier Giorgia Meloni hanno voluto lo spostamento alla presidenza del Consiglio della gestione del Pnrr e dei fondi europei tradizionali. Vista dal ministero dell’Economia, è stata l’amputazione di poteri di gestione di risorse per quasi trecento miliardi di euro. Questa svolta e le stesse riserve di Fitto hanno messo ai margini la Ragioneria dello Stato, che è parte del ministero dell’Economia. Negli ultimi tempi hanno lasciato il ministero oltre venti addetti al Pnrr, quindi la capacità di controllo finanziario del Piano ne sta soffrendo. E come se, sul Recovery, il principale centro di know how finanziario del governo si fosse messo alla finestra in attesa degli errori altrui: «Se qualcuno vuole le nostre competenze dice una voce dall’interno le prende e ci fa ciò che ritiene». Si innesca qui la terza ragione dei ritardi italiani: l’esigenza di integrare la riscrittura del Pnrr con i piani di RePowerEu, cioè i progetti di autonomia energetica sostenuti da Bruxelles. Meloni e Fitto
hanno chiesto piani alle grandi imprese partecipate Enel, Eni, Snam e Terna e queste li hanno presentati: dalle reti elettriche da Sud a Nord, a un nuovo rigassificatore galleggiante, alla cattura e sequestro delle emissioni inquinanti, a un potenziale aumento della produzione di pannelli fotovoltaici in Italia. Per ora il costo di questi progetti eccede la riserva a disposizione per RePowerEu, che include 2,7 miliardi di nuovi trasferimenti a fondo perduto da Bruxelles e circa tre miliardi dai fondi europei tradizionali. II resto dunque potrebbe dover essere finanziato con le risorse che, potenzialmente, si stanno per liberare con le modifiche al Pnrr. Impossibile dunque fare una cosa senza l’altra. Ogni piccolo pezzo va montato insieme a tutti gli altri, con il rischio che una mossa sbagliata faccia saltare tutte le altre. E un puzzle amministrativo finanziario ad alto grado di difficoltà: non esattamente una tradizionale specialità italiana