Il difficile equilibrio tra tutela ambientale e commercio globale

L’ acciaio è un componente chiave in settori come le infrastrutture, i trasporti, l’energia, l’edilizia e non ha facili sostituti. La World Steel Association prevede che nel 2050 si passerà dagli attuali 1,95 miliardi di tonnellate di consumo a 2,3. L’industria che Io produce è però una delle maggiori responsabili di CO2. Secondo l’International energy agency (Iea), l’acciaio è responsabile per il 7% delle emissioni antropogeniche di gas serra a causa della sua dipendenza dal carbone, impiegato nel 70% della produzione. Tuttavia già i tre quarti delle aziende del Nord America e più di un terzo in Europa utilizzano processi alternativi, in linea con l’Accordo di Parigi. La produzione di acciaio avviene in due modalità: a “ciclo integrale” con gli altiforni, che trasforma il minerale di ferro in metallo attraverso il
carbone, ovvero “elettrica” che ricicla e fonde rottame nei forni ad arco. Secondo Plea, il primo processo inquina sei volte di più, con 2.200 kg di CO2 per tonnellata di acciaio grezzo. È però impossibile abbandonare repentinamente il ciclo integrale, innanzitutto per la scarsità di rottame che oggi sarebbe in grado di soddisfare solo un terzo della domanda globale. Gli Usa sono uno dei maggiori produttori ed esportatori al mondo di rottame di ferro, con oltre 75 milioni di tonnellate riciclate all’anno, la maggior parte da automobili a fine vita: la siderurgia americana è la meno carbon-intensive del pianeta. L’Europa ricicla una quantità ancor più alta di rottame ma l’uso ancora imponente di altiforni comporta emissioni dirette e indirette di circa 1.250 kg di CO2 per tonnellata di acciaio grezzo. In Italia il collasso degli altiforni, da una parte, e gli investimenti tecnologici dei privati dall’altra, hanno permesso di ridurre le emissioni di CO2 fino al 60% rispetto alla media Ue, ma la maggior parte degli altri membri in particolare la Germania non hanno ancora staccato il cordone ombelicale col carbone. Stati Uniti ed Europa, tuttavia, rappresentano solo il 12% della produzione mondiale; Cina, India, Giappone, seguiti da Corea del Sud, Russia, Brasile e Ucraina producono tre quarti dell’acciaio mondiale, all’8o% usando ancora altiforni con intensità di carbonio di quasi 2mila kg di CO2 per tonnellata, il doppio rispetto
agli Usa e il 40% in più dell’Ue. La principale alternativa al carbone è il processo di direct reduction (Dr),
la “riduzione” del minerale ferroso in metallo usando gas naturale, che diminuisce le emissioni di almeno 11 60 per cento. Ma i vantaggi vanno oltre: la tecnologia di riduzione più moderna – la cui proprietà
intellettuale è tutta italiana – permette il recupero selettivo della CO2 di processo, arrivando a ridurre le emissioni in atmosfera fino al 90 per cento. Nel mondo esistono più di cento impianti di riduzione, ma solo una ventina di nuova concezione, principalmente in America e medio oriente. Nell’Ue ci sono progetti di Dr per circa 5o milioni di tonnellate annue che comportano però tempi lunghi, investimenti miliardari, energia elettrica e volumi di gas attualmente non disponibili: beni industriali e di consumo fatti con acciaio green rischiano di avere un sovrapprezzo che la maggior parte dei consumatori non potrà o non vorrà pagare. Sono quindi necessari interventi incisivi a livello legislativo per supportare la produzione di acciaio sostenibile. Programmi come la Buy clean initiative o l’Inflation reduction act negli
Stati Uniti sono segnali forti verso l’economia verde e un tentativo per superare le tariffe sull’acciaio di Trump. 119 dicembre scorso il Wto ha stabilito che l’amministrazione Usa violò le regole invocando ragioni di sicurezza nazionale e Biden, condannando la decisione, ha rilanciato con il Green Steel Club. E una proposta a Europa e altri Paesi per la creazione di un consorzio che imporrebbe tariffe alla frontiera definite in base alla misura dell’impronta di carbonio. A Bruxelles si è deciso di partire da ottobre 2023 con il Carbon border adjustment mechanism, l’adeguamento dei costi delle importazioni in base al contenuto di CO2. Le iniziative Usa e Ue vanno nella direzione della sostenibilità ambientale, ma pongono il dilemma della convivenza tra le regole del commercio internazionale e la battaglia contro il cambio climatico. India, Cina, Brasile e Sudafrica hanno dichiarato in sede di Cop27 che si devono evitare «misure unilaterali e pratiche discriminatorie, come la carbon border tax, che potrebbero provocare distorsioni del mercato e aggravare il deficit di fiducia tra le parti», spostando l’onere della
conformità climatica ai Paesi in via di sviluppo. Trovare l’unanimità è una chimera e forse il modello Parigi 2016 andrebbe ridefinito, riflettendo sui successi del protocollo Montreal 1987 per la riduzione del
buco dell’ozono e adottando soluzioni di experimentalist governance.

Fonte foto Pexels

@ilsole24ore

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