Il futuro dell’automotive? I tre passi per difendersi dallo stop a diesel e benzina

Una strategia articolata su più fronti: almeno tre. All’indomani del voto del Parlamento europeo che ha imposto lo stop alla vendita in Europa di automobili a benzina e diesel dal 2035, la composita ed eterogenea filiera bresciana dell’automotive cerca di reagire in maniera proattiva a un cambiamento di assetto industriale che rischia, secondo le stime, di mettere in discussione qualcosa come ventimila posti di lavoro sul territorio provinciale. Il primo fronte, sembra di capire, è quello più squisitamente politico: l’anno prossimo si vota per rinnovare l’emiciclo di Bruxelles e per qualcuno c’è ancora margine per cambiare il testo della direttiva, aprendo in maniera più chiara e decisa alla sperimentazione di altre soluzioni in grado di raggiungere gli obiettivi di de carbonizzazione. E ciò che va sotto il titolo di «neutralità tecnologica», ma servirà un forte lavoro di lobby per far passare l’idea che non è solo con l’elettrificazione che si cambierà faccia ai trasporti (privati ma anche pubblici) sul Continente. Il manifatturiero bresciano, in seconda istanza, pone poi il tema degli investimenti legati all’innovazione e alla riduzione delle emissioni, finora poco condivisi con le grandi case produttrici e che di conseguenza ricadono in particolare sul primo livello della filiera. Sull’argomento, ieri, si è espressa Confindustria Brescia, la quale ha organizzati insieme a Intesa Sanpaolo una serie di gruppi di lavoro ai quali hanno partecipato i nomi di riferimento per il distretto. «Tre quarti delle imprese bresciane intervistate sintetizza il dg di via Cefalonia, Filippo Schittone considera la transizione elettrica un’opportunità solo se accompagnata da rilevanti investimenti; il 25% delle realtà bresciane ha invece dichiarato una certa perplessità a riguardo, contro il 14,3% nazionale». Come dire: il cambiamento, se è necessario, ha un prezzo, finanziario ma anche sociale. Al fronte politico e a quello economico (Intesa si è detta ieri pronta a sostenere le imprese nel processo di transizione) se ne aggiunge infine un terzo, più commerciale. I problemi non riguardano infatti solamente l’attuale tasso di sviluppo della dotazione infrastrutturale di ricarica nonché la fonte di provenienza dell’energia elettrica ma più in generale il paradigma di consumo da parte delle nuove generazioni che tendono a servitizzare l’oggetto automobile, il che avrà chiari effetti sul futuro parco circolante, destinato da un lato a decrescere in maniera importante e, dall’altro, a cambiare la sua geografia, con i Paesi emergenti che diverranno i primi acquirenti dei mezzi tradizionali a motore endotermico. Scenario, quest’ultimo, che chiama in causa la capacità di reazione di una filiera fatta soprattutto di piccole e piccolissime imprese le quali, come giustamente ricorda il segretario provinciale FimCisl Stefano Olivari, «spesso non lavorano solo per l’industria dell’auto». «Considerando che per progettare e validare nuovi prodotti servono mediamente dieci anni, rischiamo di vedere azzerati già dal 2025 gli ordini per il lancio di nuovi prodotti su auto a motore termico» è la preoccupazione espressa dal presidente di Union meccanica Confapi Brescia Gianluca Baiguera. In effetti, la digitalizzazione spinta dell’economia ci ha insegnato che il mercato premia chi è in grado di leggere in anticipo i trend della domanda (si pensi ad esempio a come Airbnb ha ridisegnato il business dell’accoglienza): «Questa transizione è l’indicazione strategica di Schittone impone un cambio nel modo di fare impresa, superando le logiche del passato verso una mentalità più aperta alla collaborazione». D’altronde l’economia della conoscenza, seppur altamente automatizzata, mette l’uomo al centro, e un ruolo importante, in questo contesto, assume la formazione, come sottolinea il segretario della Cgil di Brescia, Francesco Bertoli: «Il cambiamento è già in atto e il mercato sta dando ragione all’Europa ragiona il leader sindacale: credo sia inutile ormai arroccarsi su posizioni di retroguardia e, anche se ancora non abbiamo un’idea precisa delle dimensioni che la transizione avrà dal punto di vista occupazionale, ora dobbiamo gestire lo spostamento di professionalità, compensando la perdita di manodopera dal basso con lo sviluppo di nuove figure». Anche perché, aggiunge Olivari, «dietro l’auto elettrica non c’è solo un nuovo modo di spostarsi, c’è un modello di città e di economia potenzialmente rivoluzionario».

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